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3 delle moltissime cose che i romanzi dovrebbero imparare da One Piece

One Piece è il manga (fumetto giapponese) più venduto al mondo; tra film, versione animata e merchandising, questa serie guadagna cifre da capogiro ed è amata da fans e critici di tutto il globo. Successo a parte, possiamo impararne qualcosa, noi scrittori?

Lo dico da appassionata di letteratura: molto più di quanto il nostro orgoglio sia disposto ad ammettere.

Prima cosa: come introdurre i personaggi. Sul serio, non è possibile che uno scrittore butti venti nomi in due pagine per poi aspettarsi che il lettore si ricordi tutto. Per chi, come me, ha problemi a ricordarsi perfino i nomi delle persone in carne e ossa, è una vera tortura. Stranamente, non ho questo problema con One Piece, nonostante sia un’opera con centinaia e centinaia di personaggi che brulicano, combattono e sono capaci di riapparire a distanza di anni. In parte è merito del medium: ricordarsi i personaggi è molto più facile se questi hanno un corpo, invece di essere soltanto nomi su una pagina. In One Piece ogni personaggio ha un aspetto unico che lo rende immediatamente riconoscibile, ma ad aiutare la memorizzazione intervengono anche altri fattori: la personalità distinta di ognuno di essi e, soprattutto, il fatto che vengano introdotti gradualmente. Prima il protagonista, poi i comprimari, poi i cattivi… pagina per pagina, vediamo i nostri eroi e antagonisti succedersi su una scena che non diventa caotica se non quando vuole l’autore, mentre le loro storie si dipanano, intrecciandosi senza ingarbugliarsi. Può sembrare una cosa scontata, ma da scrittrice vi assicuro che non lo è; perfino alcuni libri entrati nel pantheon dei classici commettono questo fastidioso delitto. Nel mio piccolo mi sforzo di introdurre i personaggi poco per volta, rendendoli memorabili e dotati ciascuno di un modo di esprimersi diverso dagli altri, almeno per quanto riguarda quelli principali. Le cadenze nel parlato sono utili perché così si capisce subito chi parla, ma non bisogna abusarne, a meno che non stiate scrivendo o leggendo una commedia dialettale.

Seconda cosa: usare gli archetipi senza farli scadere in cliché. Tutti conosciamo gli archetipi: la fanciulla in pericolo, l’eroe senza macchia e senza paura, oppure, viceversa, l’antieroe compless(at)o e cinico, il villain… sono i modelli predeterminati con cui organizziamo la conoscenza sotto forma di storie (il contenuto dell’inconscio collettivo, per dirla con Jung). Il motivo per cui così tante storie ci sembrano già viste, piene di cose trite e ritrite è appunto perché gli archetipi vengono usati male e scadono in cliché. Ad esempio l’archetipo dell’eroe può produrre protagonisti che sembrano fatti in serie, ma può fare molto di più: un eroe potrebbe cadere vittima della propria bontà e imparare che la compassione, pur essendo nobile, non può essere l’unico metro di giudizio, oppure potrebbe perdere e diventare l’eroe caduto, oppure l’eroe è buono ma soffre per un proprio difetto e deve ingoiare il proprio orgoglio e metterci una pezza per maturare… le possibilità sono infinite. Il buon uso degli archetipi rende le storie immediatamente comprensibili e soddisfacenti ed è un grosso aiuto per la memorizzazione. Un archetipo ben usato conserva inoltre una freschezza unica ed è come un abito tagliato su misura per il personaggio; si adatta alla sua personalità e storia anziché sembrare qualcosa calato dall’alto o un dettaglio che lo esaurisce. One Piece è piena di archetipi ben maneggiati: il suo protagonista, Rufy, è un giovane testardo e coraggioso che si rende conto della propria mancanza di intelletto; per questo insiste tanto sulla necessità di avere dei compagni di viaggio in grado di compensare questo e i suoi altri difetti. Apprendiamo in seguito che questo e numerosi tratti del suo carattere, come la golosità o l’estrema serietà con cui prende la questione della libertà umana, sono dovuti a come cresciuto; Rufy incarna l’archetipo di eroe dello shonen (genere cui appartiene One Piece) avendo al tempo stesso una personalità distinta, riconoscibile e plausibile (almeno all’interno del mondo della storia). Alcuni fan della serie gli preferiscono personaggi più complessi, ma se dovessi discutere adeguatamente gli archetipi in One Piece mi servirebbero almeno tremila pagine, altro che un articolo…

Terza cosa: come gestire la complessità crescente. One Piece si apre con l’inizio del viaggio di Rufy: il giovane recluta la ciurma e si imbarca nella difficilissima impresa di diventare il re dei pirati, visitando isola dopo isola e combattendo nemici potenti al fianco di nuovi amici e alleati. Piuttosto semplice, vero? Solo in apparenza: man mano che la storia procede il punto di vista si allarga, permettendoci di rimanere al corrente di cosa accade nel resto del mondo e di come vengano viste le imprese di Rufy e i suoi compagni. Intravediamo cosa accade dietro le quinte e veniamo a conoscenza di fatti di cui lo stesso protagonista è all’oscuro. One Piece è come una stanza piena di oggetti misteriosi che venga illuminata lentamente: alcune cose sono chiarite, altre rimangono nell’ombra; un obbiettivo mancato per quelle storie che, invece, degenerano in una confusione di nomi e informazioni contradditorie impossibili da seguire.

Tutti abbiamo in mente almeno una serie televisiva che ha sofferto di questo problema nelle ultime stagioni.

One Piece potrebbe insegnare molto altro su come scrivere storie, ma, come accennato, non riesco a farle entrare tutte in questo articolo. Vi è piaciuto? Vorreste leggerne altri? Seguitemi!

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