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Il mio viaggio a Torino

Torino è una bella città e la settimana scorsa ci sono stata per partecipare a una lezione della Holden e prendere (altro) cioccolato

 

Avevo sentito parlare a lungo della scuola di scrittura Holden; è molto rinomata, ma l’idea di iscrivermi non mi sfiorò per lungo tempo per svariati motivi. Il primo è la distanza: abitando in provincia di Reggio Emilia, Torino non è un affatto un posto vicino o comodo per me, il secondo è che in passato nutrivo seri dubbi sulla validità dei corsi di scrittura.

In questo ha pesato un’esperienza parzialmente negativa con un corso simile che aveva offerto la mia università, la Cattolica di Milano. Pur avendomi dato spunti utili, il fatto che a ogni lezione ci fosse un insegnante diverso con pareri diversi (e a volte un senso di superiorità), mi lasciò confusa e con l’amaro in bocca.

A questo si aggiunge un fatto: il talento non si può insegnare, ogni scrittore deve trovare il proprio stile, tema e nicchia con cui si sente più a suo agio ed è qualcosa che l’insegnante non può fare al posto tuo, anche se fosse lo scrittore migliore del pianeta. Un altro motivo è che l’arte di narrare storie è l’esatto opposto della matematica: non ci sono regole sempre valide, persino quelle che sembrano universali possono avere una dozzina abbondante di eccezioni. È un campo dove la creatività fa (o dovrebbe fare) da padrone, ma lo stesso vale per la tecnica e la conoscenza degli strumenti narrativi. Puoi avere letto e mandato a memoria scene favolose, dialoghi memorabili, o personaggi immortali, ma questo non ti rende automaticamente in grado di replicare la magia.

Se così fosse, lo saprei e l’avrei imparata, credetemi. Leggo tantissimo, ma ultimamente mi capitava di incorrere in difficoltà a stendere i dialoghi, in particolare a fare in modo che ogni personaggio avesse una propria voce, anziché far sembrare che fosse una sola persona a commentare gli eventi. Così mi tornò in mente la Holden e mi chiesi se tenesse corsi online. Scoprii in questo modo che non solo la risposta era affermativa, ma uno sull’argomento sarebbe partito a breve. L’insegnante avrebbe caricato online delle lezioni registrate – a cui posso accedere tuttora – e io le avrei guardate quando mi era più comodo. Erano previsti due esercizi di scrittura e che l’ultima lezione si tenesse dal vivo a Torino.

Fu così che decisi di iscrivermi e partecipare dal vivo all’ultima lezione, partendo il venerdì mattina scorso alla volta di questa città.

Non era la prima volta che andavo Torino, bensì la seconda. Ormai anni fa, prima del covid, con mio nonno ancora vivo, avevo visitato il Museo egizio, la Venaria reale e la Mole Antonelliana assieme a lui e alla mia famiglia.

Stavolta, la mia visita sarebbe stata più breve: una notte sola, appunto di quel venerdì, in un hotel vicinissimo alla stazione. Lo trovai presto, scoprendo mio malgrado che la mia camera non era pronta e non ebbi modo di svuotare il mio pesantissimo zaino come avrei voluto, ma tanto, mi dissi, avrei usato il taxi. Senonché google maps mi informò che la scuola Holden distava solo una mezzora di camminata da dove mi trovavo e così decisi di avviarmi a piedi, anche per calmare il nervosismo che mi aveva colpita fin da quella mattina.

In questo modo riuscii a calmarmi e incontrare un mucchio di negozi lungo la strada, compreso un mercato al coperto (e scoperto), nonché un quartiere molto pittoresco vicino alla scuola, dove arrivai con un leggero ritardo. Grazie alla pazienza e professionalità delle receptionist, riuscii a trovare la mia classe senza problemi e unirmi al tour della scuola.

Venni così a sapere che la Holden fa parte di un progetto più largo di riqualificazione urbana: la struttura che ora ospita la scuola era stata bombardata più volte lungo il corso della guerra e poi lasciata in stato di abbandono, fino alla decisione di restaurarla e fare in modo che ospitasse la scuola. Essa offre ulteriori servizi a chi abita nei dintorni, come il doposcuola ai bambini, e si spera che a processo terminato il pittoresco quartiere lì vicino si risollevi dai suoi correnti problemi.

Tuttavia la prima cosa che mi colpii della scuola (oltre al fatto che potevano benissimo togliere il cartello che invitava a suonare anziché aprire la porta, perché invece bisognava aprirla) è lo scarto tra lo stile architettonico esterno e quello interno. Inconsciamente, se vediamo un tipo di edificio, ci immaginiamo che i suoi interni corrispondano al tipo di stile della facciata: per esempio, se passiamo davanti a una chiesa gotica, ci aspettiamo che gli interni siano di una chiesa gotica e non un mercato al coperto. Mi aspettavo un tipo di interni affine all’architettura esterna ottocentesca, invece mi sono ritrovata davanti a uno stile iper moderno non proprio di mio gusto: a corridoi dipinti in nero se ne succedevano altri di arancione sparato e non era difficile incontrare cubi od oggetti angolari. Le aule erano visibili dai corridoi perché delimitate da vetrate, ma ogni tanto si spalancavano terrazze che davano sulla città e il cielo azzurro vivo.

Architettura a parte mi sembrava di essere tornata in università: c’erano lezioni in corso, aule libere, popolate da gente impegnata a scrivere su computer o carta e anche un piccolo bar.

Finito il giro è cominciata la lezione; abbiamo incontrato dal vivo il nostro insegnante che ha letto e corretto in classe i compiti di scrittura, dandoci consigli validi e rispondendo a qualsiasi altra domanda avessimo sulla scrittura.

Nel mio caso, i consigli di cui farò tesoro sono i seguenti: in caso di un setting fantascientifico, o comunque lontano dalle nostre esperienze odierne, è meglio spiegare i dettagli anziché restare in superficie e far sembrare che piova tutto dalla luna. Un altro, è che i personaggi devono suonare diversi l’uno dall’altro mentre parlano, perché hanno (o dovrebbero avere se sono ben costruiti) diversi caratteri, punti di vista e modi di reagire; l’unica eccezione sarebbe posta da contesti militareschi o distopici, dove l’individualità è repressa più o meno brutalmente

La lezione è terminata prima del previsto e sono tornata verso la stazione con un altro membro della classe con cui ho fatto amicizia.

A piedi, con lo zaino pesante.

Nondimeno, è stata una boccata d’aria fresca poter condividere con qualcuno le gioie e i dolori della scrittura. Come ha giustamente notato il nostro insegnante, scrivere è un mestiere solitario: le persone possono ispirarti, leggere le tue storie e aiutarti a riscriverle e scrivere meglio, ma la fase della scrittura resta solitaria. A meno che non sia un romanzo a quattro o più mani, sei solo davanti al file word, alle prese con un mondo che solo tu conosci, tu solo hai cuore e tu solo puoi portare alla vita. Al termine del lavoro, la questione cambia perché hai bisogno di aiuti esterni, ma tutta la fase prima è solitaria ed è ancora più difficile per i non affermati, perché si chiedono “perché impegnarmi e impazzire sulle pagine se alla fine nessuno leggerà? È vero che si può scrivere per sé stessi, ma in realtà si spera che anche il più privato dei diari un giorno possa essere letto e amato da qualcun altro oltre a chi lo ha scritto”.

Avevo le spalle pesanti ma il cuore sempre più leggero, durante quel tragitto.

Tale sensazione svanì rimpiazzata da un senso di stanchezza formidabile non appena salutai Vanessa.

Trovai una farmacia e andai a comprarmi qualcosa contro il mal di testa. Dopodiché pensavo di prendere un panino e mangiarlo per cena, ma non trovai nulla che mi interessasse presso i bar e rientrai nella mia stanza sentendomi distrutta. Per una mezzora rimasi stesa sul letto, immobile. Ma come fare per la cena? Ero a pezzi e i ristoranti vicini non mi ispiravano. L’ideale sarebbe stato poter ordinare qualcosa da mangiare in camera.

Ci sono momenti di grazia in cui vorresti abbracciare l’universo ed elevare un canto di lode e grazie alle persone che hai attorno e quando arrivò la pizza ancora fumante, provai esattamente uno di quei momenti e benedii la donna – corriere a cui pagai alcuni degli euro meglio spesi della mia vita.

Fu anche la prima volta che provai una pizza senza mozzarella, “solo” con pomodoro, prosciutto cotto e wurstel. La divorai con un appetito che non credevo di avere e dopo aver preso il farmaco, il mal di testa iniziò finalmente a scemare.

L’ultimo problema della giornata fu trovare un modo per fermare la doccia gocciolante. Ne avvolsi il telefono in un asciugamano, lo posai a terra e passai la sera e notte nel silenzio ovattato di cui avevo bisogno.

(A parte un ubriaco che si mise a urlare in strada intorno all’una di notte, ma non si può volere tutto).

Il mattino dopo ebbi modo di fare tutto con calma, poiché per raggiungere la stazione mi bastava attraversare la strada.

Ne approfittai per passare alla Feltrinelli, dove ho preso il quaderno che vi ho mostrato nelle story, ma mi mancava ancora qualcosa: la colazione. Non mancava molto tempo alla partenza del treno, ma fortuna volle che trovai proprio vicino al binario un negozietto di cioccolato Venchi.

Fu come tornare bambina nella sezione giocattoli.

Alla fine optai per due bottigliette d’acqua e le tavolette che vi ho mostrato nelle story: una al 60% fondente alla mente e una al gusto di bacio di dama.

Salita sul treno e staccato un paio di file di quadrati dalla prima, mi sentii subito meglio. La partenza fu in orario, l’aria era limpida e le alpi in lontananza coperte di neve.

Torino, Holden, tornerò.

 

 

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