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La Holden, io e i pessimi tempismi

La Holden è una delle scuole di scrittura più rinomate in Italia. Ecco le mie più recenti esperienze in merito.

 

I corsi online aprono la porta a molte esperienze, alcune positive, altre negative, altre volte, purtroppo a vere e proprie truffe.

Ma poi c’è il classico imprevisto: ti eri fatto i tuoi calcoli, avevi trovato un corso interessante che si rivela davvero tale, ma, non sai bene come, la cosa ti si è ritorta contro senza che sia una frode, né colpa tua, né dell’insegnante.

Questo è stato l’inizio del mio rapporto con il corso classify (cioè online) della Holden chiamato Scrivere è riscrivere.

Il motivo per cui ho deciso di intraprenderlo è legato a Camena, la prima serie che abbia mai provato a scrivere; la versione che state leggendo adesso è la terza stesura di quello che all’inizio era un romanzo interminabile. Giunta a al sessantottesimo capitolo, mi resi conto che avevo scritto con tanta passione ma poca coerenza interna e che se il cattivo di quello specifico capitolo era elevato a villain numero uno del romanzo, una grossa quantità di buchi di trama (e sbrodolamenti vari) veniva risolta. Così iniziai la seconda stesura, che pensavo di trasformare in una trilogia, ma la trama era ancora troppo traballante e così passai alla terza e all’idea di farne una serie.

Perciò so cosa significa riscrivere, ma pensavo che un corso di questo tipo potesse dare più frecce al mio arco e aiutarmi nelle fasi di riscrittura ed editing di tutti i miei libri. Se rielaborando un testo lo rendi peggiore, è una beffa con danno.

Il primo imprevisto è stato lo spostamento del corso: doveva partire a maggio, ma per motivi organizzativi è stato rimandato a giugno, sfortunatamente per me. Se maggio è stato per la sottoscritta un mese tranquillo, giugno non lo è stato affatto e sono riuscita a mettere mano al corso solo quando mancavano meno di due settimane alla consegna dell’esercizio di scrittura, un racconto tra le sedicimila e le ventimila battute.

Preferisco i romanzi ai racconti, sia da lettrice sia da scrittrice. Il che non significa che ogni singolo racconto mi faccia schifo o non sappia scriverne, ma che più spesso tendono a venirmi le idee per scrivere romanzi. A meno che non abbia già un’idea adatta a essere espressa in forma di racconto, chiedermi di scriverne uno sull’unghia è un sistema efficace per mandarmi nel panico.

Cosa scrivo? Cosa non scrivo? Ho passato al vaglio alcune idee di quelle che tengo nel cassetto senza sapere cosa farne, ne ho scelta una, e mi sono messa al lavoro. Poi perdevo la concentrazione. Poi la ritrovavo. Poi spuntavano altri impegni. Poi riprendevo. Poi la concentrazione se ne andava a quel paese e tanti auguri a ripescarla.

Sono ammattita sul quel racconto e ancora di più a farlo rientrare nei limiti di battute richieste, ma alla fine ce l’ho fatta. Mandato quel maledetto file, ho tirato un sospiro di sollievo: dovevo solo recuperare le lezioni caricate online in forma di video e sarei stata in pari.

Scrivere è riscrivere non è il mio primo corso in classify e davo per scontato di dovermi ascoltare al massimo quattro video di un’ora ciascuno prendendo appunti. Facile. In due o tre giorni, tutto sarebbe tornato sotto controllo.

Che le lezioni fossero cinque e la durata si aggirasse da un minimo di due ore a un massimo di quasi quattro, è stata una sorpresa spiacevole. Mentre ero impegnata in questa pazza maratona, tra altri impegni, arriva la notizia di un nuovo compito di scrittura: correggere i racconti mandati in base alle indicazioni fornite in un nuovo video di quattro ore.

Così, in meno di due settimane, mi ritrovavo piena di cosa da fare, con più di dieci ore di video da sbobinare prendendoci appunti, più un racconto da riscrivere.

A un certo punto ho gettato la spugna; dopo aver ricevuto le indicazioni nel lunghissimo video delle correzioni, ho lasciato perdere l’utopia di rimettermi in pari con le lezioni, buttandomi anima e corpo nella riscrittura. Ho cancellato passaggi e personaggi poco utili e ho dato maggiore spazio al protagonista, Ivo, dando alla storia un tocco di azione in più, ma senza mai perdere la vena fantasy-comica presente fin dall’inizio. Dopo due giorni, il racconto era pronto, o almeno lo era nella mia testa. Ho respirato profondamente e ho premuto il comando fatidico: “conteggio parole”.

Venticinquemila e settecento battute. Cinquemila e settecento da tagliare, frase per frase, avverbio per avverbio, sillaba per sillaba. Sapevo che sarebbe finita così e che era inutile lamentarsi. Dopo altri due giorni, compiendo una maratona intellettiva che Bolt levati proprio, la seconda versione di Corna, spade e un mare di guai era davvero pronta e la inviai senza indugi.

Restavano solo quattro ore di video. L’insegnante era preparato, ma non condividevo i suoi gusti in fatto di racconti, né la predilezione per la letteratura americana, o la convinzione che i racconti fossero preferibili ai romanzi. (Tuttavia devo aggiungere che dopo aver letto alcuni romanzi brutti e ripensato a racconti assai più belli, capisco il suo punto di vista; è più facile avvicinarsi alla perfezione in un racconto che non in un romanzo, con molte più parole, personaggi e fattori che rischiano di andare storti).

Finite le lezioni arriva l’ultima, in cui è richiesto, se possibile, di andare di persona. La scelta di andarci in carne e ossa si è rivelata vincente: quella che nei video era una testa troppo loquace, nella realtà era una persona chiacchierona, preparatissima e innamorata del complicato processo della scrittura. Pur non essendo uno scrittore, ama e conosce benissimo quel campo assieme a quello non meno insidioso dell’editoria.

Ci ha fatto presente che scrivere è un compito molto meno romantico e infinitamente più faticoso di quanto non sembri o venga fatto trasparire dalle storie stesse. L’amore per la scrittura non basta, ci vuole un’ossessione e una volontà di ferro per diventare autori affermati e quando ha chiesto chi nutrisse per la scrittura un amore ossessivo, sono stata l’unica ad alzare la mano.

Sono l’unica persona che conosco capace di buttare giù centinaia di pagine senza esitare a cannare o riscrivere interi capitoli se reputa che serve. Per tacere di tutti quei quaderni che ho riempito di appunti per storie non realizzate, o di cui ne ho realizzato una minima parte. Anche Hemingway faceva così; non sono ancora Hemingway, né lo ambisco, ma in quanto a ossessione sono sulla strada giusta.

Il professore rispondeva alle domande e ha dato indicazioni utili a ciascuno di noi. Non mi è mai capitato di annoiarmi e distrarmi, o se sì solo per pochi secondi, al punto che assieme al resto della classe sono riuscita a seguirlo per quattro ore abbondanti con una pausa striminzita di cinque minuti. Non capita spesso che la mia attenzione regga così a lungo.

Addirittura ha notato una cosa sui miei dialoghi che nemmeno la sottoscritta o l’insegnante del corso sui dialoghi aveva colto: la loro vicinanza alla sceneggiatura.

Un buon dialogo dovrebbe essere allusivo, sottintendere un piano che viene sfiorato, raramente toccato, ma mai portato interamente alla luce. Invece i miei dialoghi sono molto più diretti e più vicini a sceneggiature in cui i personaggi apprendono novità e il pubblico con loro. È una scelta per cui ho optato senza essermene resa conto, spinta in parte dalle restrizioni sulle battute, ma anche dalle infinite light novel che ho letto, dove i dialoghi, pur funzionali, raramente brillano. Probabilmente pesano anche gli anni passati a scrivere e riscrivere Camena, di cui alcuni personaggi sono letteralmente usciti da un cartone animato e il dialogo deve rifletterlo. A questo si aggiunge il gusto personale: trovo esasperante quando i personaggi girano intorno a un tale argomento senza affrontarlo per centinaia di pagine perché nessuno vuole/ne trova la forza; piuttosto preferisco che uno si stufi e affronti direttamente la questione. Nei film ci sono pause di silenzio amatissime dalla critica perché spetta allo spettatore riempirli e capirne il motivo e io, pur essendo d’accordo in certi casi, in tantissimi altri ho vissuto con un misto di fastidio e imbarazzo quei momenti. Perché, se fino a un secondo prima, avevo seguito e capito tutto, non ci riuscivo più? Perché quel silenzio, cosa c’entrava, cosa aggiungeva? Che senso aveva quella faccia fatta al vuoto?

Insomma, mi rovinava l’immersione e i dialoghi troppo ambigui o in cui un personaggio sceglie di tacere un’informazione che potrebbe dare al plot una svolta diversa (e quasi sempre più felice) mi fanno riassaporare quella frustrazione e venire ancora più voglia di urlare.

So apprezzare un buon dialogo fatto di arguzie e condotto in modo sottile e indiretto, ma non ogni singolo dialogo ha bisogno di sottigliezza, o dello stesso grado di sottigliezza.

Così finisco per esagerare dal lato opposto, creando personaggi molto chiacchieroni che esplicitano la loro personalità e discutono elementi del plot che anche un narratore onnisciente potrebbe portare all’attenzione del lettore. Rimango convinta che un dialogo di questo tipo possa sortire effetti più drammatici e memorabili che non un resoconto indiretto (a volte), ma, come giustamente mi ha fatto notare il professore, devo essere più consapevole di come faccio parlare i miei personaggi. Non è detto che questo mio stile sia un/in errore, ma devo esserne cosciente e saper scrivere dialoghi più sottili e indiretti, all’occorrenza.

Questo corso mi è stato di enorme utilità; passare qualche ora in compagnia di persone che hanno la mia stessa passione/ossessione mi ha giovato anche dal punto di vista umano.

Ammetto di avere girato gli occhi quando il compagno che avevo dietro si lamentava di dover riscrivere una sessantina pagine, ma sono riuscita a non ridergli in faccia.

Il professore non ha taciuto i garbugli in cui è possibile infilarsi con gli editori e si è vivamente raccomandato di controllare sempre cosa pubblica una casa editrice in modo da evitare di mandargli materiali che non gli interessano (ad esempio, se un tale marchio stampa solo saggi, è inutile mandargli romanzi). Ha inoltre confermato i miei sospetti che certi contratti editoriali possono naufragare semplicemente per antipatie a pelle. È una triste normalità che all’autore spetti non più del cinque per cento del prezzo di copertina e che un libro edito rimanga sugli scaffali solo poche settimane (alcune delle ragioni per cui ho preferito ricorrere al self publishing).

Abbiamo terminato alle sei e mezza di sera e lui ci ha lasciati con la promessa di pubblicare un ulteriore video-lezione per i racconti finali che non era riuscito a correggere, nonché un elenco di riviste che pubblicano racconti di autori esordienti.

Un pomeriggio molto produttivo, intenso e gradevole. Tornando a piedi verso la stazione e il treno che mi avrebbe riportata a casa, mi sentivo leggera.

 

Ho svolto anche un altro corso online sul video marketing di cui un giorno spero di farvi vedere i frutti, anziché scriverne.

 

E voi? Avete mai frequentato un corso online e se sì, com’è andata? Fatemi sapere!

 

 

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